La verità, vi prego, sulla scuola internazionale

Chiara Traversi e la sua bimba, Sofia

Chiara Traversi e la sua bimba, Sofia

Giorni fa, attraverso un’amica comune, ho conosciuto Chiara, che un bel giorno, dopo aver studiato, pensato e approfondito a lungo, ha deciso di rivoluzionare la sua vita professionale aprendo una scuola internazionale: l’International School of Bergamo. Ne ho approfittato per togliermi qualche curiosità sulla scuola bilingue, di quelle curiosità che i direttori delle scuole, in sede di colloquio, normalmente non ti tolgono, vuoi per mancanza di tempo vuoi perché sono troppo concentrati a elencarti gli innumerevoli aspetti positivi e le mirabolanti attrezzature che vantano di possedere nella loro struttura, per concludere il colloquio con i nomi dei loro ex-alunni che hanno ricevuto il premio Nobel. Finalmente, con Chiara, potevo saltare le informazioni più scontate e andare un po’ più a fondo. Per di più lei, oltre ad essere preparata, aggiornata e competente, è una di quelle donne toste che senza il minimo accenno di autocompiacimento, quando tu le chiedi come le è venuto in mente di aprire una scuola internazionale, serenamente ti dice che l’idea ha iniziato ad accarezzarla nel 2008 ‘in un periodo nel quale – racconta – grazie ad un tumore (e dico grazie, e non a causa di, con cognizione di causa)  ho avuto molto tempo a disposizione per riflettere. Avevo 34 anni. La tradizione poco italiana dell’anno sabbatico ha un suo perché…Ecco io ho avuto a disposizione un po’ meno di un anno, durante il quale, per la mia personale condizione, ho avuto modo di domandarmi se volevo spendere la mia vita, lunga o corta che fosse, occupandomi di qualcosa che potesse cambiare il mondo oppure no. Ecco davvero penso che l’educazione abbia un ruolo centrale per costruire una società migliore. Questo pensiero si è perfettamente incastrato con le considerazioni che spesso facevo sul lavoro (ero project manager in una multinazionale americana di software finanziario). Lavorando sia in Italia sia all’estero, con colleghi di tutto il mondo, mi sono ritrovata spesso a constatare quanto i nostri giovani si affaccino al mondo del lavoro con delle competenze spesso non adeguate ad un mondo che è cambiato molto velocemente. Ti faccio un esempio banalissimo: lavorare in team è un requisito essenziale, non è pensabile inserire in un gruppo di lavoro qualcuno che non sia in grado di relazionarsi efficacemente. La nostra scuola, dalle elementari fino all’università valuta sempre e solo il lavoro individuale. Come ci si può aspettare che un giovane laureato sappia davvero essere collaborativo? Per non parlare dell’inglese! Per fortuna qualcosa sta cambiando anche nella scuola italiana. Ci sono realtà veramente interessanti, e che peraltro stanno lavorando tantissimo per formare più insegnanti possibili (vedasi l’associazione Impara Digitale). Temo che però ci vorrà ancora parecchio tempo affinché l’innovazione possa davvero diffondersi in tutte le scuole pubbliche’. 

Quali sono gli aspetti principali da considerare quando si sceglie una scuola internazionale?

Direi che il principale è capire le motivazioni che spingono una famiglia a considerare un percorso internazionale. La maggior parte delle famiglie che si iscrivono, valutano come fondamentale per i propri figli l’apertura mentale, il crescere in un ambiente multiculturale, l’eccellenza della didattica e infine la conoscenza dell’inglese. In questo ordine. Una minoranza dichiara, come motivazione principale, la conoscenza dell’inglese. Di solito, dopo il primo anno, comprende come l’inglese sia un mezzo, ovviamente importantissimo, ma non il fine. Per questo è importante considerare il curriculum che la scuola adotta. I più diffusi sono il British National Curriculum (curriculum nazionale inglese) e il Common Core State Standard (indicazioni per il curriculum americano), che, semplificando, seguono i programmi dei Paesi d’origine, oltre naturalmente all’International Baccalaureate, che invece non si riferisce ad un paese in particolare, ma che da oltre 40 anni si pone come obiettivo quello di valorizzare le culture locali, con un respiro internazionale. Penso sia importante inoltre per le famiglie valutare il riconoscimento che il curriculum scelto gode nel mondo. Per esempio, sappiamo che ultimamente gli A-levels  hanno perso un po’ di smalto a favore dell’IB e visto che ogni genitore vuole fornire al proprio figlio le chiavi per accedere al più ampio ventaglio di scelte possibili, questo tipo di ragionamenti penso siano indispensabili.

E’ il caso di valutare la predisposizione e la personalità del proprio figlio prima di iscriverlo a una scuola bilingue? E’ vero, per esempio, che il metodo americano incoraggia la competitività e di conseguenza i bambini poco competitivi possono in qualche modo sentirsi non all’altezza? 

Sinceramente non penso che esistano bambini predisposti e bambini non predisposti al bilinguismo tout court. Esiste una facilità nell’apprendimento della seconda lingua, che tipicamente rispecchia la precocità o meno nella prima lingua. Esistono bambini che iniziano a parlare a 18-24 mesi e bambini che lo fanno a 30-36 mesi; ogni bambino è diverso e ha i suoi tempi. E’ invece molto importante che l’introduzione della seconda lingua avvenga per immersione e il più precocemente possibile. Per immersione intendo dire che, almeno nel periodo dell’infanzia, a scuola, l’esposizione all’inglese è bene che sia totale ed esclusiva. Il sistema americano è piuttosto differente da quello internazionale. La competitività non è un valore. Basti pensare che per tutte le elementari noi non diamo voti. Dare un voto ad un bambino significa implicitamente fare una classifica. Durante l’infanzia e la fanciullezza anche solo sei mesi di differenza tra un bimbo e un altro possono determinare un enorme divario in termini didattici.  A parità di impegno e capacità, non sarebbe inusuale vedere un bimbo nato a gennaio conquistarsi un otto, mentre quello nato a dicembre arrivare solo al sette. Questo, oltre che essere iniquo, ha anche degli effetti importanti sulla considerazione del bimbo, sia da parte degli altri (genitori, insegnanti, compagni), sia da parte del bambino stesso. E questo è molto più grave. La didattica che seguiamo noi, per esempio, è child-centered, cioè chiediamo al bambino il massimo che in un determinato momento può raggiungere e, per questo, viene premiato e giudicato. Questo implica un grandissimo lavoro da parte degli insegnanti, accompagnato da altissima competenza. Le 3-way conferences, colloqui con la presenza di genitori, figli e insegnanti, servono per fissare di comune accordo degli obiettivi e valutare insieme il lavoro fatto fino a quel momento. Il bambino è il protagonista del proprio apprendimento. In questo modo studia e si impegna per se stesso e non per compiacere i genitori e gli insegnanti. D’altronde viviamo in un mondo in cui le nozioni tecniche che si acquisiscono a scuola sono obsolete ad appena 3-4 anni dal diploma. E’ diventato assolutamente necessario che i bambini imparino ad imparare, ma non solo: che amino farlo.

E’ fondamentale che un insegnante sia madrelingua o va bene anche che sia proveniente da un Paese non anglosassone e che non abbia una pronuncia perfetta ma che sia molto preparato dal punto di vista didattico?

Le scuole serie hanno solo insegnanti qualificati all’insegnamento. E si badi bene, non della lingua inglese, ma all’insegnamento ai bambini. Sembra una banalità, ma ci sta tutta la differenza che ci può essere, per esempio, tra l’ottico e l’oculista, per spaziare in un altro campo. Ovviamente è molto meglio che siano madrelingua, ma se mi chiedi cosa è più importante, ti rispondo senza alcun dubbio la competenza. 

Per noi la fase di recruiting degli insegnanti è davvero fondamentale: occupiamo un ‘incredibile quantità di energie e risorse per trovare il profilo adatto. Perché sappiamo bene che, per applicare con successo un curriculum pedagogicamente complesso come quello dell’International Baccalaureate, è indispensabile trovare grandissime competenze, ma anche qualità personali per potersi relazionare con i bimbi, spiccata collaboratività e tanta passione. D’altronde per un insegnante entrare in una scuola IB significa essere formato (l’IB impone una formazione continua e degli standard molto alti) e dà prestigio al proprio CV. E’ un po’ come una calamita: le scuole IB cercano i migliori insegnanti e i migliori insegnanti cercano le scuole IB.

In cosa si differenzia la didattica di una scuola internazionale IB rispetto a quella di una scuola bilingue con metodo inglese e ad una con metodo americano?

Una scuola internazionale che segue l’International Baccalaureate ha un percorso ben definito, seguito da oltre 5000 scuole nel mondo. Il cuore della didattica è il Learner Profile, cioè dieci caratteristiche che la scuola si prefigge di sviluppare. Essere risk-taker, thinker, communicator, caring, open-minded, ecc. Possono sembrare dichiarazioni di intenti, ma non è così. I nostri genitori ci testimoniano, come vedono i loro bambini cambiare, dopo un po’ che sono a scuola. Non hanno più paura di sbagliare, ragionano molto di più sul perché e il per come delle cose che stanno attorno a loro o sugli argomenti che studiano in classe. Si preoccupano di essere efficaci nell’esposizione di un argomento, perchè sanno che devono essere convincenti e non annoiare le persone che hanno davanti a loro. Sono attenti ai sentimenti degli altri, gioiscono per un successo di un compagno. Sanno che la diversità è un valore, non è una minaccia da cui difendersi. La didattica è interdisciplinare e lavora per Unit of Inquiry. Si parte da una central idea e la si sviluppa in tutte le direzioni. Per esempio Grade 4 quest’anno ha fatto una Unit che sia chiamava Exploration, in cui i bambini si sono domandati il perché gli uomini da sempre esplorano spazi sconosciuti; si è parlato di Cristoforo Colombo e di Marco Polo, ma anche di Samantha Cristoforetti! La motivazione, la molla è sempre la stessa. Per questo si studia storia: capire il passato per affrontare meglio il futuro! Questo è anche un modo per capire chi siamo. Tutti i bambini sono molto orgogliosi della loro identità culturale, che ovviamente si rafforza nel confronto. Un po’ come quando andiamo in vacanza all’estero e diventiamo tutti più patriottici! 

Le scuole bilingue sono un universo molto più variegato. Ce ne sono alcune che seguono un doppio binario, nel senso che seguono in alcune ore la didattica del Programma Ministeriale, mentre in altre quella del British National Curriculum. Questo significa affrontare i vari argomenti quando e con la modalità in cui in ciascun sistema sono previsti. Per esempio, in terza elementare in storia in lingua italiana studiano la preistoria, mentre in storia in inglese i Vichinghi. In altre scuole si tenta invece di seguire un solo sistema, i CLIL (Content and language integrated learning): semplificando, sono scuole italiane con tanto inglese. Questa metodo è seguito da una minoranza di scuole. Ancorché sulla carta appetibile, in realtà poi si scontra con la realtà dei mezzi a disposizione (risorse didattiche inesistenti, docenti madrelingua preparati e formati su altri sistemi, difficile coordinamento tra docenti, ecc.). I CLIL sono un approccio corretto all’apprendimento della lingua alle superiori, a patto che si scelgano con cura le materie da affrontare con i CLIL (meglio le materie scientifiche e molto visive). Per fortuna abbiamo a disposizione tutta l’esperienza portata dai Paesi nordici che da anni le stanno sperimentando e oramai fanno parte consolidata della loro programmazione.

Con un insegnamento bilingue non si rischia di perdersi per strada qualcosa del programma scolastico, col risultato che non si è formati adeguatamente nelle varie discipline?

Guarda, negli ultimi anni il dibattito nel mondo dell’education a livello internazionale, ma anche in alcune sedi italiane, si è concentrato molto sulla metodologia. Si è detto, a ragione, che serve un approccio più laboratoriale, il superamento della didattica frontale, l’utilizzo della tecnologia quale mezzo a disposizione di una didattica innovativa, interattiva, stimolante, ecc. Tutte cose buone e giuste, e che vedono le scuole internazionali adottare già da parecchi anni. Quest’anno al Bett di Londra, la più importante fiera di settore che da 30 anni fa il punto sullo stato dell’arte, un appuntamento immancabile per chi si occupa di education, per la prima si è parlato in modo preponderante di COSA insegnare e non più solo di COME. In effetti tutti si dichiarano sempre favorevoli all’introduzione di nuove discipline, argomenti che i nostri ragazzi non possono non sapere. Ecco ci si dimentica sempre di dire cosa bisogna eliminare. Se vogliamo che i nostri ragazzi sappiano programmare (negli Stati Uniti, Obama in persona si è preso la briga di dire che bisogna insegnare coding ai ragazzi, cosa prontamente ripresa da Renzi ed inserita nelle linee guida della Buona Scuola), dobbiamo anche dire cosa togliamo. Perchè le ore di scuola sono sempre le stesse. Bisogna stare molto attenti a non ritrovarsi nella situazione per la quale per fare tutto, si fa tutto male. 

Se un bambino ha qualche difficoltà di apprendimento oppure semplicemente un ritardo nel linguaggio, è giusto iscriverlo a una scuola bilingue oppure sarebbe meglio di no?

Come accennavo inizialmente ogni bambino ha i suoi tempi. Il luogo comune per cui i bilingue parlano più tardi, non è supportato da alcuno studio recente. Queste considerazioni rientrano nell’ambito delle esperienze personali: “Ma lo sai che Tizio ha due anni e mezzo e ancora non parla? certo, è bilingue!” Senza considerare che la sorella di Tizio, bilingue anch’essa, magari a due anni parla in entrambe le lingue. E poi noi italiani abbiamo nel nostro passato una fortissima tradizione di bilinguismo, basti pensare a tutte quelle regioni in cui a scuola si parla in italiano e a casa e con gli amici in dialetto, in molti casi a tutti gli effetti un’altra lingua. E’ invece importante che la scuola alla quale ci si rivolge abbia al proprio interno le competenze sia per riconoscere i campanelli d’allarme che possono suggerire un approfondimento per la verifica dei DSA (Disturbi specifici dell’apprendimento), sia per gestirli, poi, nella classe. Oramai moltissime scuole internazionali o comunque all’avanguardia, utilizzano strumenti digitali che davvero semplificano moltissimo la vita ai bimbi dislessici, discalculici, ecc. Per chi poi ha un programma con un device 1:1 c’è anche il grandissimo vantaggio non solo di supportare i bambini nelle difficoltà didattiche, ma anche di farlo anche psicologicamente, utilizzando gli stessi mezzi degli altri, non facendoli sentire “diversi”. Ecco, tra le domande che farei ad una scuola, sicuramente rientrerebbe quella sugli Special needs. Come vengono gestiti? La scuola ha una policy? che competenze ci sono tra i docenti? 

Nelle scuole internazionali spesso capita che gli insegnanti trascorrano qualche anno insegnando in un determinato Paese e poi tornino a casa, lasciando magari gli alunni a metà del ciclo scolastico. C’è un modo per evitare questo?

La prendo alla lontana, ma fìdati che arrivo a rispondere alla domanda. La scuola, rispetto ad altri ambienti lavorativi, tende ad essere un universo chiuso. E’ per questo che noi mandiamo continuamente i nostri insegnanti a visitare altre scuole, in Italia e all’estero, a partecipare a fiere di settore, ecc. E’ quindi di immenso valore aggiunto accogliere nella propria scuola docenti che provengono da altre scuole internazionali, perché portano esperienze diverse che ogni volta arricchiscono un po’ tutti i colleghi. In effetti le scuole cercano con estrema attenzione di trovare un equilibrio proficuo tra docenti più stabili e docenti più propensi a girare. Un buon tasso di turnover si aggira intorno al 20% all’anno. E veniamo al riflesso di questo sugli alunni. Nelle scuole internazionali, ma è lo stesso in generale in tutte quelle anglofone, le insegnanti sono stabili su un determinato anno di insegnamento. Questo perché a livello didattico si pensa sia meglio per il bambino confrontarsi con diversi adulti lungo il proprio ciclo scolastico. Questo aiuta i bambini ad essere più sicuri di sé e più indipendenti, oltre che ad essere osservati da più insegnanti, che possono avere anche caratteristiche personali differenti e quindi instaurare dinamiche con i singolo bambini diverse. Il bambino non deve trovare nel proprio insegnante una coperta di Linus né una seconda mamma. Questo all’inizio spaventa molto le mamme, ma in poco tempo capiscono che i timori sono solo loro: i bambini non hanno alcun problema e già in Grade 1 (che corrisponde all’ultimo anno dell’asilo italiano) tutti i timori sono svaniti. Va da sé che il turnover fisiologico in realtà non ha alcun impatto sugli alunni. 

Ma se creassi una rubrica nel blog: Chiedi a Chiara ?

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5 Discussion to this post

  1. mauro ciarciaglini ha detto:

    Sono un insegnante di una scuola bilingue bergamasca e zio di una bimba di due anni che cresce in un ambiente bilibgue. Complimenti per l articolo, molto preciso ed esauriente. Risponde a molte domande circolate in famiglia sul futuro scolastico di mia nipote.

  2. Oriana ha detto:

    Mi è piaciuto leggere questo articolo. I drammi che affrontano le scuole elementari pubbliche – come il cambio i insegnanti – qui sono visti in positivo…

  3. Elisabetta C. ha detto:

    Articolo molto ben scritto ed esperienza interessantissima quella di Chiara. Scrivo anche io di education, educazione bilingue, IB e scuole internazionali e sono mamma di tre figli bilingui, per cui posso affermare con cognizione di causa che mi pare proprio in gamba….
    peccato non abitare a Bergamo, a questo punto!
    Elisabetta
    http://www.educazioneglobale.com

  4. virginiamanda ha detto:

    Complimenti per l’intervista, l’ho trovata molto esauriente.
    Anche io mi occupo da vicino di bilinguismo e vedo quante aspettative riversano sulla scuola internazionale i genitori.
    In alcuni casi si naviga “a naso” perché gli insegnanti proveniendo da tutte le parti del mondo hanno approcci metodologici e disciplinari molto (ma molto) diversi ed in alcuni casi questo può disorientare il bambino.
    Allo stesso tempo e proprio per lo stesso motivo, è altamente stimolante perché ogni regola per quanto piccola, viene discussa e implementata tra tutte queste diverse esperienze.
    Ogni scuola internazionale è a sé, naturalmente, ma anch’io sono d’accordo sul fatto che più che sull’ambiente di apprendimento ora sia giunto il momento di occuparsi dei contenuti. Magari con un Curriculum IB più forte e strutturato? Chissà!
    Ancora complimenti!

    • Chiara Traversi ha detto:

      Buongiorno Virginia,
      mi permetto di darle qualche indicazione sui contenuti. A differenza dei percorsi nazionali che definiscono in modo piuttosto preciso i contenuti, l’IB è un curriculum che per sua natura (diffuso in tutto il mondo) non può definire i contenuti in modo prescrittivo (in particolare per quelli umanistici). L’IB dà della indicazioni , gli Scope and Sequence, che poi ogni scuola adatta e interpreta, rimanendo però nel superstrutturato framework definito dall’IB. Ogni scuola è così libera di scegliere quali autori analizzare in letteratura inglese, piuttosto che se concentrarsi sulla storia europea oppure asiatica (può facilmente immaginare come i contenuti di storia possano essere, o meglio debbano essere ,differenti tra l’International School of Bergamo, che dirigo, e un’altra scuola internazionale in Giappone!).
      Quel che tutte le scuole IB però sanno, è che alla fine i ragazzi sosterranno degli esami, solo scritti, che verranno corretti da persone dall’altra parte del mondo e che fanno assessment con i medesimi criteri. Ecco perché l’IB è un Diploma ambito, così ben accetto nelle università e considerato un curriculum molto rigoroso, ma non rigido. Chiara Traversi

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