Donna delle pulizie. Lavoro duro, paga bassa e la volontà di sopravvivere di una madre

Una macchina scassata piena di detersivi, un lavoro da meno di nove dollari l’ora con cui mantenere una bambina piccola, un futuro nel quale, comunque, continuare a credere: questa è Stephanie Land e la sua storia raccontata in Donna delle pulizie. Lavoro duro, paga bassa e la volontà di sopravvivere di una madre, edito da Astoria.

Un libro leggero che pesa come un macigno: un memoir che si legge come un romanzo, grazie a una scrittura intensa e alta, che ti prende per mano e nell’altra ti mette uno spazzolone invitandoti a stare in guardia perché l’alternarsi della fortuna un giorno potrebbe colpire anche te e allora ciao benessere, ciao piccoli lussi, prendo e vado a pulire le case degli altri, a mettere in ordine nelle loro tane falsamente accoglienti, a spaccarmi la schiena per guadagnare quelle due lire che a stento mi permettono di mettere insieme una cena decente.

Esagerata? Provate a leggere.

Stephanie non è nata povera, anzi, è cresciuta in una famiglia della middle class americana ma si ritrova, a 28 anni, con una figlia piccola da mantenere, una relazione finita con un uomo violento e una dipendenza cronica dalle organizzazioni pubbliche di assistenza sociale. E un lavoro come donna delle pulizie, fatto di sveglie all’alba, di nessun giorno di malattia o di ferie, di salari ridicoli, di ricerche spasmodiche di buoni spesa. E, naturalmente, di tutto il corollario di problemi connessi al crescere, da sola, una bambina di 10 mesi senza poter contare sull’aiuto di nessuno.

Un abisso?

Per nulla. Un saliscendi continuo, a tratti ansiogeno, spesso alienante, un precipizio di malinconia, tristezza, rabbia, dolore nel quale Stephanie non cade perché ha una volontà di ferro- a volte mi addormentavo dal gran piangere e la mia unica consolazione era sapere che la mia storia non sarebbe finita così– , una figlia che adora e, soprattutto, un sogno, quello di diventare scrittrice, al quale non rinuncia nemmeno quando ha 10 dollari sul conto e non sa come pagare la benzina per andare al lavoro.

Ogni volta che sentivo la sofferenza della perdita, con il petto che si infossava verso il vuoto che avevo dentro, avevo scoperto che era meglio fermarmi e aspettare, concedere a quell’emozione un attimo, farla passare. La sofferenza non voleva essere ignorata.  Doveva essere amata, così come io avevo bisogno di essere amata. Seduta nella mia auto, con il sacchetto di aragoste sul sedile del passeggero, inspirai ed espirai lentamente, contando ogni volta fino a cinque. Ti voglio bene, sussurrai a me stessa. Sono qui per te. La sicurezza di amare me stessa era tutto ciò che avevo.

La capacità di narrazione dell’autrice riflette la sua resilienza, il suo non indugiare negli aspetti più drammatici di un’esistenza al limite, di una povertà vischiosa e dura, che avvolge tutto e che diventa un malessere contro il quale si deve, necessariamente, lottare.

E per farlo Stephanie usa spazzoloni e detersivi combattendo la sua battaglia nelle case degli altri che creano, poco per volta, un microcosmo bislacco ma veritiero di differenti tipologie sociali di cui “lustravo la vita perché apparisse perfetta” quando la sua, di vita, di perfetto, non aveva proprio nulla.

La Casa di Henry, La Casa di Wendy, La Casa dello Chef, La Casa Triste, La Casa Porno, La Casa della Fumatrice: un florilegio di usi e costumi, un’intimità domestica scandagliata fin nei suoi aspetti tragicomici, un’analisi cinica e inclemente della poca felicità che quella stessa gente, nonostante gli agi, sembra avere.

Erano ricchi e avevano le case a due piani del sogno americano, bagni con lavandini in marmo, studi con bovindo affacciati sul mare, eppure nelle loro vite mancava qualcosa. Mi incantavano gli oggetti nascosti negli angolini bui e i libri di autoaiuto per la ricerca della felicità. Forse avevano solo corridoi più lunghi e armadi più capienti per nascondere ciò che li spaventava.

La società americana contemporanea viene filtrata dagli occhi di Stephanie, una società il cui welfare è morto e che permette alle persone come lei di sopravvivere grazie a un’umanità forte e generosa, un’umanità fatta di sconosciuti perché le persone della sua vita compaiono e scompaiono rapidamente, un’umanità che alla fine premia i sacrifici di una donna che porta sì da sola sulle sue spalle il peso di un’esistenza dura, ma che va avanti sempre e soprattutto grazie all’amore.

I miei problemi con la solitudine, il desiderio di compagnia continuavano a tormentarmi, ma non ero sola. Mia mi aveva salvato.

Se è vero che ogni libro lascia qualcosa dietro di sé e in qualche modo ti cambia, bè, questo romanzo costringe ad aprire gli occhi, a spalancarli proprio per osservare con sguardo diverso la realtà con la quale ogni giorno si entra in contatto, con un che di pirandellesco che fa sorridere con il cuore stretto.

Perché Stephanie potremmo essere noi, senza i nostri comodi salvagenti, Stephanie è la donna che al supermercato sceglie i prodotti più scontati, è la signora che ci stira le camicie e che accetta i vestiti che non mettiamo più,  Stephanie è l’altra faccia dell’America patinata, quella che le possibilità se le deve creare piegando a suo uso e consumo quel sogno a stelle e strisce di una vita meravigliosa che è, invece, un chiaroscuro dove le zone d’ombra rischiano di mangiarsi la luce a ogni passo falso.

Testo di Ursula Beretta

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