Romanzi deliziosi e imprevedibili da leggere subito

I libri di questi primi mesi dell’anno sono scostanti e imprevedibili, bizzarri e deliziosi, accompagnano in silenzio senza prevaricare ma riescono a far sentire la loro presenza tirando quel filo sottile che, dalle loro pagine, arriva a noi.

Sono i racconti di vite sfilacciate che la fragilità del mondo, soprattutto del lavoro, rende quasi evanescenti al punto che si avrebbe voglia di stringere le donne e le ragazze che ne costituiscono la silenziosa popolazione. Sono “Le ciclopi” di Manuela Piemonte (Nutrimenti), che della mitologia conservano la speranza, spesso delusa, che la mutevolezza del tempo nel quale vivono possa concedere loro una tregua. E intanto non smettono di guardare avanti facendo quello che sanno fare meglio. Si reinventano. Si adattano. Lottano. Fanno i conti con l’instabilità professionale e sentimentale costruendosi un equilibrio, precario, che faticano a mantenere tale. Le loro peripezie sono seguite dall’occhio implacabile dell’autrice che, in modo diretto e scarno, disegna il loro malessere e le loro frustrazioni in precisi fotogrammi di vita che, però, riescono a preservare la loro parte più intima.

Il dovere della memoria non è un obbligo ma un bisogno per chi, come Simone Veil, ha attraversato il lato più oscuro della storia e ha potuto raccontarlo con il desiderio che nessuno più si trovasse a fare altrettanto. Protagonista di anni cruciali della storia francese ed europea, in ”Solo la speranza lenisce il dolore” (Corbaccio) Simone Veil ha affidato a un video racconto per la Fondation pour la Mémoire de la Shoah, qui trascritto, la tragedia da lei vissuta in prima persona durante la Seconda Guerra Mondiale. Un’adolescenza interrotta e rinchiusa in un campo di concentramento e il ritorno in Francia con un bagaglio ingombrante di dolore e di umiliazioni che si traduce nella scelta di parlare al mondo per rendere più efficace la sua testimonianza. È un memoir da leggere e da far leggere perché ciò che è stato non si dimentichi. Mai.

Georges Simenon non tradisce nemmeno quando il suo Alain Poitaud, brillante e giovane direttore di un noto settimanale parigino, si trova al centro di un delitto passionale che diventa, per lui, il pretesto per una riflessione più potente sulla sua stessa vita. È così che “La prigione” (Adelphi) non è solo la gattabuia che accoglie la sua Micetta, la moglie accusata di avere ucciso la sorella in nome di una gelosia non meglio specificata, ma racchiude l’esistenza stessa di un giovane casanova impenitente, avvezzo agli agi e meno alla riflessione interiore, che si muove ebbro per le strade piovose di Parigi alla ricerca della verità, certo, ma di quella che riguarda il suo posto nel mondo. E’ qui che i privilegi acquisiti, la voglia di riscatto sociale, lo sfarzo polveroso sono in realtà le fondamenta già minate in partenza di un quadro che, privato della cornice, si rivela solo una crosta senza valore.

Chi sono “I folgorati” del nuovo romanzo di Susanna Bissoli (Einaudi) ? Semplice.  I folgorati sono quelli che sopravvivono pur se colpiti da un fulmine, a differenza dei fulminati che invece muoiono. Il problema è capire come, poi, facciano a continuare a vivere sopportando le conseguenze di un evento straordinario che forse giustifica i loro comportamenti bizzarri. O forse quel fulmine non è altro che un dolore, difficile e ingestibile, che ferisce senza lasciare scampo e spariglia l’ esistenza cambiandone inesorabilmente la prospettiva. Quel dolore che ha scelto ancora una volta Vera come vittima, già risparmiata in passato da un tumore ripresentatosi nel momento esatto in cui anche suo padre Zeno si trova ad affrontare noiosi problemi di salute appoggiandosi alla sua gamba sghemba. Accanto a loro, che condividono lo spazio della malattia e pure la casa, l’altra figlia Nora, madre single e perentoria dell’adolescente Alice, Franco, il pavido fidanzato ortopedico di Vera, conigli capricciosi e bruchi infestanti, una leggendaria santa oramai allettata e golosa di kiwi e un romanzo segreto e sgrammaticato che viene riportato alla luce con un patto familiare. Sono questi i protagonisti di una narrazione frizzante in cui l’onda lunga della malattia diventa il pretesto per indagare i legami familiari e dove la scrittura- salvifica, esperienziale, chimerica – si fa ponte tra passato e presente restituendo una dimensione domestica costruita su dialoghi brillanti, spesso accesi dall’uso del dialetto veronese.

Ursula Beretta

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