Hungry Hearts

L’ho visto. Senza raccontargli la trama – sennò mi avrebbe boicottato – ho trascinato anche Enne al cinema a vedere Hungry Hearts, l’acclamato e discusso film di Saverio Costanzo.
E’ da quando lo hanno presentato a Venezia, dove i protagonisti Alba Rohrwacher e Adam Driver hanno vinto la Coppa Volpi, che aspetto di vederlo.
Prima di guardare un film, che sia al cinema o in TV, di solito ne leggo la trama e, se c’è troppa violenza, dolore gratuito e sofferenza, specialmente a danno dei bambini, censuro, mi rifiuto di guardarlo. Quando però nella trama entrano in ballo tematiche psicologiche che penso possano farmi riflettere o imparare qualcosa, allora mi prendo il rischio.
Saverio Costanzo ha una grande sensibilità nel tratteggiare i personaggi. Il film è disperato, malinconico, a tratti anche poetico. Alba Rohrwacher, che è anche un’icona di stile per me (la ragazza non sbaglia un look ed è sempre così originale e chic), entra nel personaggio di Mina fino ad essere lei, una giovane donna che quando rimane incinta, cambia e cade nell’ossessione di creare per il nascituro un ambiente puro e incontaminato, fino a isolarsi in un mondo tutto suo, escludendo piano piano tutto ciò che lei vede come una minaccia: il cibo industriale, qualsiasi cosa potenzialmente inquinata, persino le attenzioni del marito e degli amici. Questa chiusura diventa così esasperata da mettere in pericolo la salute del bambino stesso.
Da spettatore sei spiazzato e hai l’istinto di prendere a schiaffi Mina, di scuoterla e dirle “ma sei impazzita?! cosa credi di fare?”, che poi è quello che fa suo marito. Ed è la reazione che avrebbe avuto Enne che, seduto accanto a me si contorceva mormorando “la prossima volta che mi porti a vedere un film del genere, mi alzo e me ne vado” e anche “ma non potevi leggere la trama, prima di scegliere il film?”. Ma io la trama l’avevo letta, e sono felice di aver visto il film. L’ho solo guardato da una prospettiva diversa dalla sua: ho cercato di immedesimarmi in Mina. Parto dal presupposto che sia contro natura provocare il dolore o la morte di un figlio, quindi ogni situazione anomala in questo senso, per quanto tragica, per me ha sempre la sua motivazione in un disagio profondo e patologico, covato negli anni e mai affrontato e curato. E a me Mina, più che suscitare odio o ribrezzo, ha fatto grande compassione: per tutta la durata del film ho sofferto per lei e con lei.
Riflettendoci mi inquieta di più l’ansia diffusa, e all’apparenza normale, di voler mettere sotto una campana di vetro i proprio figli con la convinzione di riuscire a proteggerli da tutto: attraverso il cibo che gli si dà da mangiare, attraverso l’isolamento dagli altri bambini, soffocandoli con una valanga di piccole, eccessive attenzioni.
Quello sì mi provoca disagio. Perché invece non seguire il buonsenso (di cui sono grande fan) e mandare i figli all’asilo anche se sono stati rilevati casi di varicella/rosolia/scarlattina; se un pomeriggio, invece della mela desiderano terribilmente un leccalecca, comprarglielo; e se per strada accarezzano un cane e poi si mettono le dita in bocca, pazienza? Per dire.

 

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