La figlia unica

È difficile parlare dei chiaroscuri della maternità, e ancora più complesso è riuscire a farlo con grazia e delicatezza, senza cadere nella banalità o, al contrario, rischiando di esasperare quel lato stucchevole che, spesso, appare fin troppo stereotipato. Gaudalupe Nettel nel suo romanzo “La figlia unica” – edito da La Nuova Frontiera- riesce ad affrontare tutte le insidie legate all’essere e al non essere madre in una maniera straordinaria, dando vita a un racconto unico e piacevolissimo, seppure nella sua crudezza.

La figlia unica potrebbe essere Laura, una donna messicana che rifiuta da subito di soccombere alla convinzione di dover forzatamente mettere al mondo un figlio: studia, le piace viaggiare, anticipa sempre agli uomini con cui esce quest’ansia di libertà che fa a pugni con l’idea di occuparsi di un bambino. Quando si accorge della tentazione a cedere alle sirene della maternità, si convince a sottoporsi a un intervento drastico che la riporta nei ranghi delle sue convinzioni e alla sua vita indipendente. Un atteggiamento duro, soprattutto se confrontato con le altre donne sue coetanee, ma giustificato dal suo sguardo netto sull’universo femminile che le gravita intorno, caratterizzato da un approccio all’essere madre difficile e realmente complicato.

Ecco che la figlia unica, forse, potrebbe avere la forza di Alina, amica di Laura, capace di condividerne inizialmente il rifiuto di vedersi inserita in una famiglia tradizionale ma che poi capitola al desiderio di procreare e inizia una gravidanza funestata fin da subito da una malformazione che potrebbe portare alla morte immediata la bambina che ha in grembo. Ma Alina e il marito decidono di opporsi al dramma e sarà Laura, con la sua muta presenza, ad accompagnare il tragico percorso di due genitori che lottano in nome di un amore che è difficile spiegare ma che la Nettel riesce a rendere benissimo. Attraverso l’angoscia solitaria della futura madre, nei passi silenziosi con i quali Laura segue da lontano il dolore dell’amica e da cui lei stessa viene travolta, quando decide di aiutare la vicina di casa, Doris, una giovane vedova che fatica ad occuparsi del figlio Nicolas, un bambino problematico, vittima dei fantasmi del padre. È Doris, allora, la figlia unica, incapace di reagire a tutto il male che un atto violento come la morte inaspettata le ha rovesciato addosso, troppo infelice per badare a un bambino rinchiuso tra le pareti di casa per sottrarlo alla possibile crudezza di un destino che sembra già scritto?

La figlia unica, qualunque essa sia, è un romanzo splendido, capace di esasperare con uno stile intenso la complessa personalità femminile, sempre in mutamento, in continua evoluzione, che fa fagotto di ogni incidente di percorso ed è pronta a rimettersi in gioco. Sempre. Sono donne che cambiano, quelle di Guadalupe Nettel, che non temono di opporsi ai gioghi della vita ma lo fanno aprendosi spontaneamente alla trasformazione, forti nella loro interezza e pure nei capovolgimenti con i quali si trovano sempre ad aver a che fare. Perché c’è dolore, c’è violenza, c’è una gelosia che spesso fa capolino e che trasforma la solidarietà femminile in un gioco al massacro, opinabile, certo, ma pur sempre capriccioso. C’è anche amore, naturalmente, spesso macchiato da ritrosia ma  destinato a uscire allo scoperto, mangiandosi tutti i cliché e imponendosi con la sua forza pura.

Non ti sembra patetico? Oggi c’è un ciclo di cinema iraniano, uno di film noir e uno di registe donne, come se il genere femminile fosse un paese o uno stato mentale. Le donne non fanno cinema noir?” “No, perché noi donne vediamo la vita sempre in rosa” ha risposto.

Testo di Ursula Beretta

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