La straniera

Leggere – e rileggere – storie di famiglia in tempo di quarantena è stato il mio personale antidoto alla solitudine (salvifica) di questi giorni sospesi. Banale? Forse, ma la malinconia ne è uscita addolcita e le ore di lettura si sono rivelate ancora più piacevoli del previsto.

Sono i corpi e le anime, le parole e i silenzi, i luoghi e le case a fare la storia di una famiglia, quella che Claudia Durastanti racconta in “La Straniera” – edito da La Nave di Teseo -, un romanzo di straordinaria eleganza in cui le emozioni sono compagne fidate, intime e, naturalmente, mute.

Un libro di una delicatezza unica, capace di trasformare un handicap in condizione normale e di rendere le stranezze ad esso legate un tratto lieve e leggero che sdrammatizza anche gli eventi più tragici di drammi famigliari in cui le incomprensioni diventano folklore e dove la quotidianità è bizzarra e tenera al contempo. 

L’autrice fa appello alla memoria per raccontare la sua storia, caratterizzata da quel perenne senso di sradicamento originato dai pellegrinaggi continui dell’infanzia: dalla Basilicata a Brooklyn, da Roma a Londra, un’emigrazione che non segue il flusso degli eventi, sia nella narrazione che nella cronologia, ma sembra bearsi di fascinazioni indipendenti.

La storia di una famiglia somiglia più a una cartina topografica che a un romanzo, e una biografia è la somma di tutte le ere geologiche che hai attraversato”.

La scrittura penetrante della Durastanti – di cui il libro d’esordio “Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra” aveva già dato un assaggio – immerge il lettore nel cuore di una famiglia che costruisce il suo presente e il suo futuro senza mai prescindere da ciò che è stato, in una dimensione pulsante e ricca di vibrante energia.

Figlia di due genitori sordi uniti da un rapporto passionale e crudele, emigrata ancora bambina in un paesino lucano da New York, la protagonista de “La Straniera”, dopo un’infanzia randagia, da adulta continua a disdegnare l’immobilità per cercare nel mondo una tregua alla sua essenza apolide. Ma che derivi da una mancanza cronica di radici oppure da un imperituro senso di non adattamento, il suo essere estranea ai luoghi la rende perfetta voce narrante di un libro – memoir mobile in cui, alla confusione geografica fa eco il tempo narrativo continuamente frammentario e capace di seguire le curve della memoria senza lasciarsene travolgere.

Il risultato è un’educazione sentimentale che disorienta, persa com’è nelle onde del passato e proiettata in un tempo che non si riesce a definire, in cui la diversità fisica e le distanze sociali non sono metri di misurazione degli eventi ma un semplice status quo che corrisponde alla normalità. Un libro da leggere per il calore che trasmette, perso com’è ad allontanare ogni stereotipo pietistico per farsi quadro palpitante di vita vissuta.

Ma quando penso alle somiglianze tra i miei genitori nei pomeriggi malinconici e rabbiosi della loro adolescenza, entrambi isolati, valuto la possibilità che l’incontro tra due persone non abbia a che fare con la predestinazione quanto con una mappa biologica che si rivela mentre ci si innamora l’uno dell’altra, e si scopre che c’era un’intelligenza primitiva che governava i nostri corpi e rilasciava particelle elementari nell’aria ancora prima di incontrarsi, in modo che queste attraversassero città, pareti di cemento e membrane di pelle per entrare in contatto con sostanze simili e sviluppare una forma di resistenza comune, una difesa contro le offese del mondo: i miei genitori si sono incontrati per i riverberi simili a quelli di una foresta prima di un incendio, non perché era scritto; il loro futuro non era impresso nella filigrana di una Bibbia o di un vecchio oroscopo, era solo una vibrazione particolare nell’aria, un allarme invisibile che invitava alla sopravvivenza”.

“La Straniera” riassume diversi modi di stare al mondo e di sentire senza sentire, in cui l’inevitabile mancanza di comunicazione dalla quale siamo tutti spesso travolti è temperata, ancora una volta, dal ruolo consolatorio della memoria.

Ma non si amano soltanto le memorie felici. A un certo punto della vita, ci si accorge che si amano le memorie”: scrive così Natalia Ginzburg in “Caro Michele” un libro che, con “Lessico famigliare”, vi consiglio di leggere (o di rileggere) perché è piacere puro e parlarne sarebbe superfluo.

Testo di Ursula Beretta

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