Racconti di fine anno

Quando mi capita di avere poco tempo per leggere o mi butto su Simenon – non me ne voglia, è per la leggerezza cinematografica che mi regalano le sue pagine – o apro un libro di racconti. E dicembre è stato proprio il mese perfetto per abbandonare i romanzi e scegliere, volontariamente, short stories scritte, peraltro, da due romanzieri doc, Jeffrey Eugenides e Lauren Groff.

«Hanno scoperto una cosa sull’amore. Una cosa scientifica. Hanno fatto degli studi per capire che cosa tiene unite le coppie. Sapete che cos’è? Non è l’andare d’accordo. Non sono i soldi, o i figli, o una visione condivisa della vita. È avere cura uno dell’altro».

Tra il 1989 e il 2017, Jeffrey Eugenides ha esordito con “Le vergini suicide”, ha vinto un Pulitzer per la narrativa con “Middlesex” e ha scritto un certo numero di racconti, confluiti in “Una cosa sull’amore“, una raccolta magistrale che nasce dal profondo minimalismo americano – quello di Carver, per intenderci – e amplifica i temi cari al romanziere con un unico grande sfondo, mamma America.

Dieci racconti, dieci modi diversi di tessere storie che vanno dal drammatico al surreale, dal pruriginoso al doloroso, in cui i sentimenti sono scarnificati e diventano causa ed effetto delle vite dei protagonisti, legate da più fili conduttori e da un’amarezza che non fa necessariamente rima con sconfitta. Ci sono uomini traditi e traditori, amicizie senili e addii necessari, fallimenti e poesie, piccole tragedie e compromessi, messaggi notturni e pensieri vergognosi, e ancora solitudine e paura e amore, ma in minuscole dosi. Il tutto concentrato intorno a quella middle class che ha fatto fuori il sogno americano in una lotta impari, analizzata con quella cura maniacale per i dettagli e quella forte dose di pietas che ha Eugenides di narrare disfatte e cambiamenti senza dimenticare la sua vena ironica che, dopo tutto, qualche speranza la lascia. Perché, in fin dei conti, siamo tutti uomini, fragili, imperfetti e in balia di una stessa barca, il destino.

Sono racconti veloci, emotivamente forti, che lasciano un solco nel lettore con i loro personaggi eclettici e differenti, nei quali l’autore si immedesima e ci sprofonda per raccontare punti di vista non scontati e piccoli movimenti interiori con una scrittura vivace, che indaga quelle relazioni umane che appartengono alla natura ambigua dell’amore, con una profondità leggera che mi fa pensare che Eugenides sia un gigante.

Una “Florida” molto poco florida è, invece, la protagonista incontrastata della raccolta omonima di Lauren Groff, scrittrice feticcio di Barack Obama e autrice, giustamente, osannata per il suo precedente romanzo (“Fato e Furia”, se non l’avete letto, precipitatevi a farlo) e per il suo stile capace di stordire, di evocare e, soprattutto, di far sentire vivi suoi personaggi.  Un dono unico che torna, ancora più forte, negli undici racconti di cui è composto questo libro, undici storie di madri, di figli, di padri, di rapporti dissestati e di donne sole le cui vicende umane si intrecciano con quelle delle bestie che abitano la cornice non proprio clemente del grande stato americano. Dimenticate l’iconografia classica che vuole la Florida come un paradiso, pieno di sole e di persone intente a svernare perché l’ambiente è una natura feroce, a tratti leopardiana, che esaspera le tragedie dei personaggi e non consola, anzi, affossa un’umanità tutt’altro che umana. Ci sono feroci anaffettivi e bambini vulnerabili, donne frustrate che camminano sole di notte e mamme ferite che sfidano gli uragani per proteggere i loro figli e il ricordo dei mariti morti; e ancora paludi e acquitrini infestati da serpenti e alligatori, uccelli e pantere; c’è la paura, l’ansia, l’angoscia, c’è la fascinazione del male che rende tutto morbosamente attraente.

Qualcuno ha parlato di realismo magico, di surrealismo: io preferisco vederci una metafora della realtà attuale che rovescia addosso al lettore l’ansia dell’incontrollabilità della natura e dell’inadeguatezza della condizione umana a confronto con essa. “Florida” è un libro inquieto che cola addosso come l’umidità della terra americana, dove tutto si sbriciola e non c’è spazio per buoni sentimenti né per la letteratura tout court (“nelle belle parole non c’è salvezza”), da cui prendono forma personaggi densi che diventano protagonisti di una riflessione unica sulla fatica di sopravvivere e sulla necessità di provare comunque a farlo.

Mentre sto finendo di scrivere questo post, mi arriva la notizia della scomparsa di Amos Oz. Che amo, che mi ha insegnato la magia della vera letteratura, che mi ha fatto sognare e vivere e piangere, e che vorrei ricordare con un suo pensiero che risponde perfettamente alla domanda che mi viene fatta da anni, ovvero perché mi piaccia tanto leggere.

I libri non ti abbandonano mai. Tu, sicuramente, li abbandoni di tanto in tanto, i libri, magari li tradisci anche, loro invece non ti voltano mai le spalle: nel più completo silenzio e con immensa umiltà, loro ti aspettano sullo scaffale.  

Ursula Beretta

 

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