Tanti, belli e al femminile: sono i libri di aprile!

I libri di aprile. Tanti, belli e al femminile, ma giuro è un caso, e io ve li consiglio tutti. Del resto, le giornate si sono allungate e c’è più luce anche per leggere, no?

C’era una volta una donna che, pur avendo tutto, un giorno si accorse che le mancava un figlio. Quella stessa donna, con il suo amore ballerino, provò a mettere al mondo un bambino senza però riuscirci tanto da essere poi costretta a lasciare andare anche l’amore di cui sopra. Ma lei era abituata ad avere quello che desiderava e non sarebbe stata certo una mancata gravidanza a fermarla. Benvenuti nel mondo di Julie che, con la sua logica infallibile, è al centro del sorprendente “Agnes”, romanzo d’esordio dell’autrice ceca Viktorie Hanisova (edito da Voland), un racconto in cui  la maternità assume quasi i contorni di un capriccio e il razzismo – urlato, sbertucciato, portato in prima pagina – è l’ospite inatteso di cui non ci si può liberare. È cocciuta Julie, e il suo desiderio di voler essere madre a ogni costo diventa la premessa, altrettanto poco sana, dalla quale prende il via la bizzarra- e al limite del legale – adozione di una piccola bambina rom, la Agnes del titolo. È proprio l’incombere di una questione etnica difficile da gestire a convincere la donna a costruire una verità alternativa che, man mano, avvelenerà il rapporto tra lei e la figlia. È un saliscendi malato, un crescendo di sforzi vani e di incomprensioni becere; è la scoperta – e la condanna – della diversità che diventa una tara dalla quale è impossibile prescindere perché appartiene, squisitamente, alla memoria del sangue. E quello non si può cambiare. “Agnes” è un romanzo dolente e perverso, in cui è protagonista un’umanità indagata senza vergogna anche nelle sue manifestazioni più disperate.

Disperata, ma per altri motivi, lo è anche la quasi cinquantenne Berta che una sera viene lasciata dal marito senza troppi convenevoli, ma semplicemente perché lui ha un’altra. Si è sicuramente sbagliato, pensa lei mentre si reca da sola al vernissage della sua galleria ma la mattina dopo l’elefante è ancora nella stanza. O meglio, c’è e se ne sta andando con un borsone sulle spalle. E ora che fare? “Fine di un matrimonio” di Mavie Da Ponte(Marsilio editore) è un lunghissimo dispiacere che prende forma nella vita monca che la donna, capace di guadagnare una certa credibilità sociale dopo il matrimonio con un ginecologo di successo, si trova incapace a governare una volta rimasta sola. Però ci prova, avvolta in una bolla di inconsapevolezza in cui mortifica le sue giornate e la sua femminilità, inscenando una commedia che la vede incapace di definirsi professionalmente, immatura a suo modo e terribile nel flagellarsi giorno dopo giorno verso un graduale abbrutimento di cui nemmeno si rende conto. È così che il racconto diventa simile a un flusso di coscienza, talvolta fastidioso e brutale, ma che viene ammorbidito da una scrittura pulita e leggera, a contrasto con quella caducità dell’amore che assume, sempre più, i contorni di un rebus perverso.

Amore e non amore, ovviamente, due fuochi che Nina conserva nel suo minuscolo cuore abbandonato in un orfanotrofio affinché impari fin da subito a sbrigarsela da sola. Il risultato? Il suddetto cuore in inverno, verrebbe da dire fuor di citazione cinematografica, custodito nel magnifico “Il pozzo delle bambole” di Simona Baldelli (Sellerio) dove bambine e bambini abbandonati o orfani sognano una famiglia mentre le suore li crescono senza risparmiare loro uno sguardo severo sulla realtà che li aspetta nel mondo di fuori. Poco importa a Nina che, convinta dall’amica più grande a congelare le emozioni e a non fidarsi degli altri, non smette di elemosinare, alla sua maniera, amore e attenzioni anche sotto forma di quelle parole alle quali lei attribuisce un grande potere e che trascrive in maniera religiosa come per renderle il suo lasciapassare per il futuro. E si proietta nel domani, Nina, in quel tabacchificio che l’aspetta come assoluto simbolo di indipendenza e di emancipazione, in anni segnati da rivolte e scioperi, dove però c’è spazio anche per la leggerezza della musica che fa brillare gli occhi. E’ qui che Nina imparerà a crearsi da sola le sue radici, liberando le sue passioni, finalmente, da quel pozzo in cui le aveva nascoste. Un romanzo di formazione e, al contempo, una finestra spalancata sulla Storia che la Baldelli rende anch’essa protagonista di pagine da cui è difficile staccarsi.

E poi c’è la favola macabra di Ottessa Moshfegh che in “Lapvona” (Feltrinelli) porta Marek, povero storpio figlio di un misero pastore, al centro di un Medioevo ricco di orrore, di malattia, di fame e  di miseria dove la morte e la carestia guidano una cronaca asettica e priva di sentimenti. Perché la fine del mondo è così, senza emozioni, lontana da qualsivoglia luminosità, da scontare pericolosamente sotto gli occhi di un Dio stanco e dove l’attrazione per l’Apocalisse assume i contorni di un flirt al contrario a cui solo pochi eletti, forse, possono ambire.

Del resto, anche l’amicizia, soprattutto quella che affonda le sue radici nel tempo, è riservata a pochi, o meglio, a poche: Valentina, Cristiana e Arianna, tre giovani donne diversissime tra di loro che, in “Amiche di una vita” di Beatrice Mariani (Sperling&Kupfer) si trovano ad affrontare un’esistenza che non è proprio quella sognata sui banchi del liceo. Ma c’è un solo modo per sopravvivere alle emozioni, restare unite.

 

Testo di Ursula Beretta

 

 

 

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