Una di Luna

Questa è una recensione che nasce dal bieco sentimentalismo, il mio, verso un autore, Andrea De Carlo, che mi accompagna da tutta la vita. Perché, se hai frequentato il liceo a Milano negli anni ‘90, accanto al De Bello Gallico, avevi necessariamente Due di Due (o Uccelli da Gabbia e da Voliera o Treno di Panna o…): De Carlo era un po’ il Moccia (scusami Andrea, non lo faccio più…) della mia generazione o, per dirla in toni lacrimevoli, il fratello maggiore di tutti noi vecchi ragazzi. Per farla breve, questo spiega perché, non appena esca un suo libro nuovo, io mi precipiti a leggerlo piena di aspettative. E di batticuore. Proprio come ho fatto con Una di Luna, edito da La Nave di Teseo: comprato, consumato, recensito.

Il libro è veloce, incalzante nella scrittura, con una trama essenziale che ruota intorno a un personaggio femminile tipicamente decarliano e uno stile narrativo frizzante, in cui si alternano desideri e delusioni, slanci e rifiuti, tenerezze e rabbie, tutti ugualmente filtrati dagli stati d’animo dei protagonisti.  Che sono un padre e una figlia, entrambi chef, diametralmente opposti l’uno l’altro: lui burbero e autoritario, anziano e incattivito, lei malamente sentimentale e capace di cercare una storia in ogni piatto, senza però riuscire a viverla nella realtà.

Il canovaccio è semplice: da Venezia Achille, il padre, viene invitato a Milano per  partecipare a un talent culinario televisivo condotto da grandi chef dal coefficiente social elevato in cui aspiranti cuochi si sfidano a colpi di mestoli e pastasciutte e Margherita, la figlia, lo accompagna in questa trasferta in cui il tempo è dilatato e ricco di contrasti.

Il viaggio sedimenta silenzi, ricordi nascosti, mezze parole e un bagaglio di rabbia e di indifferenza che contrappone l’ottantaseienne dall’illustre passato, tanto bravo ai fornelli quanto incapace di fare i conti con la vita e con le persone che lo circondano, famigliari compresi, e la quarantenne insicura e apparentemente disillusa, chef di livello come il padre ma bloccata, nel privato, in storie mediocri e alla ricerca continua di una definizione per sé stessa. La convivenza forzata potrebbe diventare l’occasione per un confronto tra i due e, soprattutto, un’opportunità di cambiamento per la giovane donna che si trova a fare i conti con una casualità speciale che la costringerà a rivedere i noiosi punti cardinali lungo i quali si muove la sua esistenza. L’incontro misterioso con un uomo stravolgerà la monotonia di Margherita e le imporrà di passare al setaccio il catalogo di figure maschili di cui si è circondata fino a quel momento, tutte ugualmente accomunate dalla medesima insensibilità paterna, capaci di vivere solo sulla superficie dei sentimenti, in legami infelici e basati su una silente accettazione della mediocrità.

Sarà Venezia a tirare le fila di questo garbuglio di sentimenti, una città lunare – appunto – in cui luci e ombre si confondono, dove le parole della narrazione tratteggiano battiti di cuori e saliscendi tra ponti e calle e squarci notturni strazianti e ammalianti insieme. Una città che diventa un palcoscenico teatrale sul quale domina la luna, con cui Margherita è cresciuta, vero e unico antidoto all’infelicità.

Quella stessa luna che dà il titolo al romanzo, infatti, è una complice silente, che non ha voce ma che ha colori e sapori, aromi e vapori, che dà luce e poi scompare, come se fosse una rappresentazione celeste del rapporto tra un uomo – asfittico, egoista, narcisista e autodistruttore- e sua figlia. “È da quando ero bambina che lo vedo rimbalzare tra atteggiamenti autoritari e ingenuità abissali, intuizioni, abbagli, scelte aggressive, cortesie d’altri tempi, successi clamorosi, errori catastrofici, eccessi di generosità, concessioni di fiducia alle persone più sbagliate, paranoie, commozioni, manie di grandezza, crolli, depressioni. Con lui ho dovuto fin da subito convivere con i sentimenti più opposti, le contraddizioni più faticose; mi ci è voluta tanta energia, per venire fuori intera.”

Altra grande protagonista del romanzo è la cucina, indagata sotto molteplici punti di vista: da quelli ironici e a tratti surreali dei nuovi chef dozzinali creati dalla televisione, alla variante geniale e nervosa di Achille che, nei suoi piatti, combina ingredienti come un’artista dando nuovi sapori alla tradizione culinaria e mostrando quella sensibilità, quella cura e quella pazienza che invece rifiuta agli esseri umani. Per arrivare a quella più intima e meditativa di Margherita, che ascolta la voce degli ingredienti per le sue creazioni  zittendo, invece, le parole del cuore e trovando, tra i fornelli, la voglia di sentirsi viva.

Tra dialoghi incisivi e personaggi cesellati in maniera quasi artistica, il flusso del racconto segue e amplifica gli stati d’animo dei personaggi – cosa in cui Andrea De Carlo è maestro – mostrandone le contraddizioni e cercando le sfumature e le ambiguità che ne definiscono i caratteri per arrivare a un finale quasi magico che dimostra che la felicità esiste e che spesso nasce da un incantesimo.

 

 

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